Sfatiamo i luoghi comuni

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Sfatiamo i luoghi comuni

di Federico Matrone *

Pratico yoga da ventidue anni e insegno hatha yoga dal 1989 e, in tutto questo periodo mi è capitato più volte di sentirmi chiedere se questa disciplina sia applicabile in un contesto storico e culturale diverso da quello di origine. Ad essere sincero, ogni volta che la mia mente insinua un dubbio riguardo all’applicabilità di determinati principi dello yoga in un diverso contesto culturale, mi pongo la stessa domanda.

Sono un uomo del mio tempo e, in parte, espressione della realtà storico-culturale caratteristica dell’Occidente; è possibile – mi sono chiesto – che lo yoga possa essere uno strumento efficace in una condizione dell’essere umano così diversa e lontana da quella Orientale?

Ciò che, in Occidente, definiamo yoga, in realtà, è hatha yoga. Si tratta di un ramo (anga) dello yoga e, più precisamente, del terzo ramo. L’hatha yoga si occupa delle posture e dei movimenti che il corpo può assumere nello spazio.

Ma lo yoga, nella sua accezione più ampia, significa unione; l’unione del sé individuale con il Sé cosmico, del microcosmo con il Macrocosmo, dell’essere individuale con l’Universo.

Pur essendo solo un ramo dell’intero processo, l’hatha yoga contiene, seppur in forma latente, tutti gli elementi del sistema. Per cui, quando il neofita si avvicina alla disciplina crede di lavorare solo a livello fisico, laddove, invece, lo yoga agisce a livello fisico, mentale e spirituale. La percezione di queste finalità non è così semplice e immediata e, comunque, occorre che il praticante compia un determinato sforzo. Senza uno sforzo non si giunge da nessuna parte, né alcun progresso è possibile.

Se, invece, riusciamo a persistere nella pratica, osserveremo che l’azione dello yoga non si limita solo a rendere flessibili le fasce muscolari e a sciogliere le articolazioni del corpo. Il suo campo di azione si amplia anche verso la respirazione e il modello abituale in cui questa si esprime. Attraverso un’osservazione sempre più costante, scopriamo una naturale e spontanea possibilità di modificare, senza difficoltà, lo schema del proprio atto respiratorio, di instaurare un profondo e completo movimento del diaframma e, in questo modo, rendiamo la respirazione più profonda.

Quando la respirazione diaframmatica è diventata un modello abituale, uniforme e regolare, ci accorgiamo che la nostra mente risponde in maniera meno automatica agli stimoli esterni, in altri termini inizia più ad agire che a re-agire. Ciò rafforza, a sua volta, un modello uniforme e regolare della respirazione che, in un ciclo senza fine, livella gli sbalzi del nostro umore, sempre sensibile alle percezioni che derivano dalla realtà esterna e interna.

Quando la pratica diventa più costante, la nostra mente, pur rimanendo vigile e attenta, sperimenta molto più frequentemente uno stato di serenità e di tranquillità, attraverso il quale tutto il mondo oggettivo assume un significato meno minaccioso e pericoloso. La nostra respirazione si mantiene regolare, uniforme e senza sbalzi e, il corpo rilassa le tensioni fisiche che inconsapevolmente avevamo imposto su esso. Questa condizione psico-fisica è propria dell’uomo in generale, a tutte le latitudini e, a saper rileggere la nostra storia, in tutte le epoche storiche.

Ecco perché ritengo fuorviante e limitante confinare l’applicabilità dello yoga ad uno spazio territoriale ben definito dal punto di vista geografico, storico e culturale.