Lo Yoga dell’Amore

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Lo Yoga dell’Amore

sintesi di Anna Orsini

Francesco Nicastro è l’autore dell’articolo “Lo yoga dell’amore”, pubblicato sul n. 146 di Ottobre 2020 della rivista Yoga Journal.

Alla domanda “che cosa è il Bhakti Yoga?” la risposta è “è servizio d’Amore compiuto senza aspettative, ai devoti, al guru, a Krishna”. I Bhakti  manifestano l’attitudine a soddisfare in modo sempre più perfetto l’Altro: il maestro spirituale, per suo tramite il Signore Supremo, gli altri devoti, tutta l’Umanità . E’ lo Yoga della relazione per eccellenza. Attraverso “il servizio devozionale” il cuore del Bhakta si riempie di sentimenti dolcissimi. Nella Bhagavad-gita il Signore Supremo stesso afferma “…come si abbandonano a Me, in proporzione, Io li ricompenso….”

Se si segue la via della Bhakti prima occorre interrompere le abitudini malsane, i vizi, le dipendenze, poi si acquisiscono fiducia in sé, si migliora il carattere e si sente sempre più l’amore  per il Supremo.

La pratica centrale di questa forma di Yoga è il canto del Mantra (Hare Krisna) in forma individuale o collettiva. La vibrazione del mantra trasforma profondamente la coscienza; svuota la mente dalle interferenze di pensieri ed emozioni, apre il cuore a sentimenti di gioia, gratitudine e compassione.

Il processo di elevazione è coadiuvato dal rispetto di alcuni principi quali l’astensione da cibi frutto di violenza, da sostanze intossicanti, da pratiche sessuali non finalizzate alla procreazione. E’ soprattutto importante il cibo offerto prima alla Divinità poi al Maestro. E’ Dio che deve mangiare per primo perché è da Lui che il cibo deriva. Il rito dell’offerta del cibo ristabilisce un corretto rapporto con l’atto del nutrirsi.

La relazione personale con un mantra è uno dei capisaldi della via del Bhakti. Il guru deve essere una persona autenticamente realizzata, coerente con i suoi insegnamenti, senza tornaconti personali. Affidarsi a lui è il primo passo per affidarsi alla Divinità. Il discepolo riceve dall’iniziazione un nome nuovo e un japamala su cui esercitare ogni giorno il proprio sadhana (disciplina spirituale). Il nome finisce sempre in dasa o dasi (servitore-servitrice di quel bene immenso che è la Vita).

La Divinità è considerata alla stregua di una persona cara, in carne e ossa. La si sveglia al mattino, la si lava, la si veste, la si nutre e, la sera, la si rimette a dormire. Dio è in ogni persona e in ogni cosa. Può assumere qualsiasi forma. Se si cucina, si cucina per la Divinità. Qualsiasi attività e servizio sono rivolti alla Divinità.

L’autore riporta l’esperienza di Silvia, che poco prima dello scoppio della pandemia ha lasciato la sua vita per seguire l’istruzione del suo maestro spirituale e vivere in un tempio. Il suo servizio (seva) è occuparsi di Tulasi Devi, la Divinità dal corpo di vegetale. Sotto forma di pianta sacra, tulasi (basilico) è in realtà Vrinda Devi, la dea di Vrindavana. Toccandola, servendola, ci purifichiamo.

Silvia dice che quando entra in serra, l’umore si alza subito, ci si realizza e il benessere è totale. Ogni iniziato porta al collo una collana e canta su Japa i cui grani sono fatti di Tulasi. Il Divino risiede ovunque: basta avere occhi e orecchie per vederlo e ascoltarlo, mani per accarezzarlo e Bhakti nel cuore per amarlo con tutto se stessi.