Le cause della sofferenza e la loro risoluzione

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Le cause della sofferenza e la loro risoluzione

sintesi di Marco Lunghi

La rivista bimestrale Yoga + ha pubblicato sul n° 7 di ott./nov. 2007 un articolo intitolato Le cause della sofferenza e la loro risoluzione. L’articolista afferma secondo lo yoga tutto deriva dalla mente ed è la nostra mente che ci rende la realtà piacevole, indifferente o dolorosa.

La realtà, di per se, è neutra e noi la viviamo in senso positivo o negativo a seconda di come ci poniamo rispetto ad essa.

Se la natura della mente, in quanto divina, è gioia incondizionata (ananda), perché, a volte, soggiace alla sofferenza, in maniera talmente insopportabile da precipitare nella depressione o nella pazzia?

La causa di tutto è l’attaccamento a qualcosa a noi esterno, ma che diviene indispensabile più di noi stessi. Senza quel “qualcosa” ci sentiamo vuoti, non siamo, perché sostituiti nel nostro centro di identità da quel “qualcosa” cui siamo attaccati. E’ la mente che si sdoppia, svuotandosi dell’io di appartenenza e riempiendosi della proiezione di quel “qualcosa”.

Perché avviene tutto questo?

Pienezza e vuoto

La nostra mente è soggetta al pathos, che lo Yoga chiama Prana o Manmata, cioè “quel che rende folle la mente”.

Il nostro io profondo intrattiene due tipi di rapporto con la realtà esterna:

  • un rapporto di pienezza, basato su ciò che soddisfa i suoi bisogni o che percepisce affine;
  • un rapporto di vuoto, basato sulla mancanza di ciò di cui abbisogna o da cui è attratto perché percepisce differente.

Ogni rapporto basato sulla pienezza è gratificante perché elimina le tensioni e le frustrazioni dell’io, che si sente sempre più bello, vero, centrato, puro. Mentre il rapporto basato sul vuoto crea sofferenza, tanto nell’anima che nel corpo.

La vita ci presenta stati che alternano piacere, neutralità e sofferenza, ma è solo su quest’ultima che ci soffermiamo e sembra non avere mai fine.

Il tempo nel piacere

La percezione del tempo varia notevolmente dai periodi di piacere a quelli di indifferenza o, ancor più, di sofferenza.

L’esperienza insegna che nel piacere il tempo dura un attimo, immenso, ma limitato. Nel tempo poi lo stato di piacere perde la sua intensità emotiva per diventare serenità. Infine, dallo stato di serenità si scivola nella normalità, o neutralità, che individua uno stato di calma, l’unico che dà reale godimento psicofisico. La condizione è quella dell’omeostasi, ovvero l’equilibrio perfetto delle componenti fisiche e mentali, quello stato di pacificazione che lo Yoga definisce shanta e che rappresenta l’obiettivo di ogni pratica spirituale.

Purtroppo la sua stessa neutralità le impedisce di essere percepibile, perchè ogni percezione si basa sull’esaltazione delle differenze. Così questa condizione eccellente scorre al di sotto della coscienza percettiva ed il tempo diventa non significativo e scivola indistinto, cosicché si vive nella serenità senza goderne.

Il tempo nella sofferenza

Anche la condizione di sofferenza stimola fortemente l’attenzione del soggetto; come nello stato di piacere, i ritmi fisiologici si alterano, ma, a differenza di quest’ultimo, il corpo tende a rimanere in uno stato di contrazione ininterrotta, laddove nel piacere le stesse contrazioni preparano e sorreggono i momenti di rilassamento e di abbandono.

E’ proprio nell’incapacità di rilassare le contrazioni che la sofferenza si distacca dal piacere. Ora, non è tanto nella contrazione che si genera la sofferenza, ma nel perdurare della stessa e nel modo negativo di viverla.

Omeostasi e Tamas

Il problema principale della sofferenza è che si sovrappone alla programmazione della fisiologia umana (omeostasi). Avviene che, se una contrazione permane abbastanza a lungo, l’intelligenza del corpo stabilisce che questa rappresenti la condizione normale di esistenza e, quindi, costringe il metabolismo ad adattarsi ai nuovi parametri.

Si crea un meccanismo perverso per cui questi nuovi parametri di alterazione e contrazione dei ritmi biologici diventano la norma e la condizione su cui impostare tutti i processi vitali, psicologici ed emotivi.

In India, tale meccanismo è detto tamas, che possiamo tradurre con inerzia, ottusità, sofferenza, mancanza di vitalità, stasi, immobilità, staticità.

Ora, il tamas è lentezza, tempo che non scorre, e questo genera angoscia, pena, sofferenza dell’anima.

Il seme karmico

E’ proprio questo blocco, di natura tamasica, a generare un “seme karmico”, che resta all’interno del corpo e dell’anima. Questo seme, o impronta, condiziona così tanto l’individuo che, a parità di condizioni, reagirà sempre nello stesso modo.

Anche se la sofferenza con il tempo passa, non per questo si cancella il processo fisiologico, psicologico e mentale che si è sviluppato durante quella sofferenza. Si istalla la ripetizione karmica della distonia ogni qualvolta si presenta un evento simile, comprimendo sempre di più l’animo, fino ad un punto di crisi. Nello stesso tempo, a livello corporeo, si verificano delle contrazioni a carico degli organi interni, determinando una stimolazione che riproduce le condizioni del primo evento scatenante, anche quando non si presenti alcuna situazione critica.

Si genera un circolo vizioso per cui una condizione psicofisica di stress si riverbera sulla psiche, mentre, contemporaneamente, la sofferenza dell’anima produce ulteriori contrazioni organiche.

La mente si distacca dal corpo che si contrae

La tensione generata dalla sofferenza provoca una contrazione dolorosa del corpo che soffre perché non riesce più a rilassarsi, mentre, al contrario, ciò che si percepisce come gioia, o piacere, altro non è che il rilassamento successivo alla contrazione.

La contrazione è provocata dal distacco della mente dalla zona che si contrae; viceversa, il rilassamento è tanto maggiore quanto più la mente si occupa di una zona del corpo: più la mente percepisce quella zona, più questa si rilassa, generando piacere e, più la mente percepisce piacere più si concentra su quella determinata zona.

Il corpo percepisce l’abbandono da parte della mente come una morte e si irrigidisce, la mente, da parte sua, abbandona una determinata parte del corpo quando questa non le infonde piacere.

Latitando la mente, il corpo resta contratto e da quel corpo la mente si allontanerà sempre più.

In linea teorica esistono due vie per liberarsi dalla sofferenza: la via del distacco e quella della partecipazione

La via del distacco

Se la mente rifugge da una zona del corpo dove non trova pathos positivo, è pur vero che è stata la stessa mente a far contrarre quella parte. Ma come opera la mente?

La nostra mente non ha una sola funzione, ma duplice: una partecipa, mentre l’altra osserva distaccata. Pertanto, la sofferenza o il godimento dipendono dalla nostra identificazione con la mente che partecipa, mentre l’altra ci lascerebbe in uno stato di sereno distacco.

Il corpo si adegua all’una o all’altra indifferentemente: con la prima si contrae, decontrae, o resta contratto, mentre con la seconda si mantiene costantemente disteso nella condizione di omeostasi.

L’interazione tra corpo e mente genera la psiche e questa soffre o gode se la sua concausa è la mente che partecipa, mentre permane in uno stato di pace (shanta) se la sua concausa è la mente distaccata. Pertanto, per liberarsi della sofferenza occorre passare da un tipo di mente all’altro.

La via tantrica della partecipazione

Il tantrico preferisce entrare direttamente nella sofferenza e superarla dall’interno. Per il tantra, essendo ogni condizione perfetta come ogni altra e il peccato più grave è la non partecipazione alla vita (shakti), male e sofferenza non esistono, esiste solo l’incapacità di gestirli.

In buona sostanza, il tantrico ama confrontarsi proprio con le situazioni difficili, in quanto le più pregnanti di Vita e di Shakti, l’ultima delle quali sarà la Morte, che il tantrico santifica e vivrà come il momento più bello di tutta l’esistenza.

Conclusione

Entrambe le vie sono possibili, ad ognuno la sua scelta.

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