Il Concetto di impermanenza nel Buddhismo e nell’Induismo

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Il Concetto di impermanenza nel Buddhismo e nell’Induismo

Per trarne una lezione di vita: stare nel presente e imparare a considerare ogni fine come un nuovo inizio

sintesi di Daniela Barbieri

Sul n. 30 di Yoga Journal del febbraio 2009, un articolo di Giampiero Comolli ci conduce ad una riflessione su uno degli argomenti chiave dell’induismo e del buddhismo: il concetto di impermanenza.

Raramente, noi occidentali, ci soffermiamo su questo concetto che spesso ci spaventa ma che può diventare una lezione di vita.

L’autore riporta delle citazioni contenute nel libro dell’“Ecclesiaste” ed attribuite al saggio re Salomone: “Tutto è come un soffio di vento, vanità,vanità, tutto è vanità. L’uomo si affatica e tribola per tutta una vita. Ma che cosa ci guadagna?

Nessuno si ricorda delle cose passate. Anche quello che succede oggi sarà presto dimenticato da quelli che verranno”.
Oltre a citare Salomone Comolli ci ricorda che nello stesso periodo veniva approntata la stesura del “Canone buddhista” e riflessioni non molto diverse da quelle di Salomone venivano attribuite proprio a Buddha: “ O monaci, io non vedo come sia possibile ottenere un possesso che sia permanente, imperituro, eterno, non soggetto a cambiamento e che duri per sempre”.

Dunque, sia per Buddha che per Salomone, la vita è cosparsa di sofferenza dovuta all’impermanenza, all’impossibilità di creare o avere qualcosa che rimanga per sempre. La cosa importante è imparare a superare questa sofferenza che avvolge le nostre vite. La condizione di impermanenza dovrebbe diventare un punto di partenza, una possibilità per ogni essere umano. Volgere in maniera positiva quello che a prima vista sembra qualcosa di estremamente negativo.

Riprendendo ancora le riflessioni dei due saggi l’autore dice infatti che Salomone propone di concentrarsi sul presente: “senza vivere di sogni e di speranze. Cerca piuttosto di compiere con molto impegno quel che riesci a fare quaggiù nel momento, di volta in volta, opportuno, dato che nella vita dell’uomo, per ogni cosa c’è il suo momento”:
Sono parole che dovremmo imparare a condividere e non sono dissimili ad alcuni pensieri di Buddha sull’argomento. Per Buddha non bisogna fermarsi su quello che si è perduto e non bisogna attendere un evento fortunato in attesa di un futuro migliore.

L’unica via d’uscita, dunque, sembra essere quella di pensare solo al presente ed imparare a godere di ogni istante che ci è donato. Fare le cose, anche le più semplici o banali, pensando che quel momento è unico ed essere consapevoli di ogni singola azione. Questa consapevolezza, questa unione ci farà percepire ogni evento nella sua pienezza e nella sua bellezza.
Dovremmo essere poi consapevoli che se tutto è impermanente allora tutto è in continua trasformazione. Si muore ma poi si rinasce e non solo una volta. Questo concetto forse è quello più difficile da comprendere per noi occidentali, culturalmente lontani dalle dottrine religiose orientali, che invece hanno un’idea della morte ben diversa dalla nostra. Coloro che muoiono tornano in mezzo a noi sotto altri aspetti, acquistano un’altra forma. Gli orientali riescono a trovare consolazione nell’idea che colui che ci ha lasciato diventi qualcos’altro.

L’autore dice che per appropriarsi di certi concetti non è necessario per forza credere nella reincarnazione. Ci invita, pertanto, a riflettere sulla strada che certi concetti potrebbero aprire. Propone di usare il rinnovamento come antidoto allo scorrere del tempo. Il dolore e la sofferenza possono essere più sopportabili se si è in grado di considerare una fine come punto di partenza per un nuovo inizio. Se i confini fra vita e morte sono così lievi, può essere più facile accettare la condizione di impermanenza che ci caratterizza e può aiutarci anche a vivere la nostra vita in modo più positivo.