a cura di Marco Mandrino e Associazione Hari-OM
Attraverso Dhyana (meditazione) si varca l’ingresso della non forma, si abbandonano definitivamente le limitazioni dei pensieri, dei sentimenti, delle emozioni e degli oggetti. Si lascia dietro di sé l’involucro fittizio dell’individualità per approdare all’universale inesprimibile. Il Samadhi è espandersi nell’universo, immergersi totalmente in esso, è un volo nel vuoto, nel nulla totale che tutto può contenere. Se il passo precedente, Dharana, la concentrazione, presumeva uno sforzo e una partecipazione attiva per mantenere lo stato, per fluire in Dhyana è necessario che ogni sforzo e ogni attività svanisca, che l’agente stesso non sia più. Secondo Patanajali, Dhyana è il settimo degli otto passi dello Yoga e si può ottenere solo dopo che il precedente Dharana è perfezionato. Il praticante che riesce a mantenere l’attenzione costante su un oggetto, interno o esterno, senza che la mente abbia delle fluttuazioni, approda direttamente in Dhyana, stadio nel quale l’attenzione all’oggetto è mantenuta senza che vi sia più nessuna intenzione o sforzo. Il preciso istante del passaggio da Dharana a Dhyana non può essere registrato dalla coscienza in quanto avviene come immersione e non come un salto. Il momento in cui si capisce di essere in Dhyana è infatti l’esatto momento in cui si è usciti dalla meditazione. Dato che il riconoscimento, è un processo mentale che etichetta le situazioni, nel momento in cui diventiamo consapevoli è automaticamente il momento in cui perdiamo lo stato.
Patanjali scrisse: “il flusso ininterrotto o la continua attenzione in un punto è chiamata assorbimento in meditazione” (tatra pratyaya ekatanata dhyanam). E’ necessario pertanto chiarire alcuni punti riguardo al significato di Meditazione proprio perché lo stesso termine è usato spesso con accezioni differenti da quello del contesto yogico. Spesso si utilizza la frase “fare meditazione” ma, in realtà, è chiaro che la meditazione non si può “eseguire come un esercizio”; al contrario, l’azione e la volontà sono inconciliabili con la meditazione.
Quando si parla di meditare si confonde la meditazione con le diverse tecniche. In realtà si confonde Dharana, la concentrazione, con Dhyana , la meditazione. Dhyana non consiste nello stare con gli occhi chiusi e con la mente che oscilla da un pensiero all’altro, ma è quello stato di vuoto mentale che si raggiunge secondo Patanjali tramite la concentrazione. Uno dei motivi di fraintendimento è il diverso significato che la cultura occidentale attribuisce al termine meditazione rispetto a quella orientale. Quando si parla di meditazione in occidente si fa riferimento spesso alla concentrazione rivolta a qualche cosa. La frase “… vado a meditarci sopra” è un tipico esempio . Nuovamente, in questo contesto, per l’oriente questo è Dharana e non Dhyana. Dhyana è il perno su cui si muove l’intera pratica dello Yoga. Si assiste spesso a lezioni di “Yoga” dove l’unica cosa praticata è attività fisica, dove non vi è spazio a nulla che possa indurre a Dhyana.
Lezioni del genere sono un ottima attività sportiva, sicuramente benefica, ma non hanno nulla a che fare con lo Yoga dato che ne estromettono l’elemento fondamentale.
Un altra fonte di confusione è lo Yoga Nidra. Coricarsi in Shavasana ed effettuare tecniche di rilassamento giova enormemente alla salute psicofisica della persona e ha effetti terapeutici notevoli ma non ha nulla a che vedere con la meditazione. Dhyana è il nettare dello Yoga e per assumerlo è necessario mantenere l’immobilità sia fisica che mentale in una posizione seduta, con la colona vertebrale allungata, rimanendo su quella linea sottile tra lo sforzo della concentrazione e l’arrendevolezza alla grazia divina, una concentrazione che è forse più corretto chiamare attenzione o vigilanza. Per la loro stessa natura è impossibile descrivere con contorni netti la meditazione e ancor di più il Samadhi. Questo stato di super coscienza è descritto all’interno di tradizioni diverse ma mantiene,in tutte, la sua unicità. Nello Yoga, Patanjali come Yogananda, hanno descritto diversi Samadhi, dai più superficiali fino a quelli più profondi, per culminare nel Mahasamadhi (lasciare volontariamente il corpo) pratica riservata solo agli esseri illuminati. In un certo senso è addirittura controproducente parlare troppo di qualcosa che ha senso solo se sperimentato. Definirlo in poche parole è impossibile, perché la divisione tra soggetto e oggetto cade completamente e vi è una completa fusione tra chi osserva e ciò che viene osservato. Secondo la via di Patanjali, stati di Samadhi sempre più frequenti e prolungati portano il praticante a uno stato di rarefazione mentale che dovrebbe condurre al Kaivalya, una sorta di illuminazione. Infatti, Samadhi è uno stato transitorio in cui un praticante entra per poi uscirne. Vivere l’esperienza del Samadhi non significa aver raggiunto l’illuminazione. Alcuni eminenti maestri parlano persino del Samadhi come di un’esperienza superflua ai fini della realizzazione. In effetti, molte vie dello Yoga, diverse da quelle di Patanjali, non prevedono il Samadhi ed altre ancora lo raggiungono con modalità differenti. Nel Bhakti Yoga il Samadhi è raggiunto attraverso l’amore appassionato per il divino (o per una sua qualsiasi forma) e non tramite la concentrazione (Dharana). Nel Jnana Yoga, invece, l’esperienza del Samadhi può avvenire ma non è essenziale, in quanto la mente è messa a tacere tramite la pratica dell’Atma Vichara, rivolgendosi domande dirette al super conscio.
La via prospettata da Patanjali non è l’unica, né la migliore, ma semplicemente una tra le tante. La grandezza di Patanjali consiste proprio nell’aver trattato, per primo, certi argomenti con piglio scientifico ed è per questo che gode di così grande considerazione. Gli otto passi dello Yoga, nel loro insieme, sono una visione dello Yoga con cui confrontarsi e dalla quale prendere ispirazione ma, ognuno dovrebbe trovare la sua via.
Non esiste uno Yoga migliore o una tradizione migliore; semplicemente ne esistono tante e ognuna ha le sue caratteristiche, tutte perfette se prese in modo non dogmatico. Lo Yoga, nel suo insieme, pervade la vita stessa dell’autentico ricercatore e ognuno, nel viverlo in modo autentico, crea la propria tradizione, guidato dal suo Guru interiore. E’ come arrampicarsi sulla stessa montagna seguendo vie diverse.
Il percorso muta, le condizioni esterne mutano e ciò che ognuno di noi percepisce è vissuto in modo differente e personale. L’esempio dei maestri può essere di grande aiuto, come lo può essere il sostegno di scuole e maestri, a patto che siano un supporto per intraprendere il cammino da soli, senza creare una nuova dipendenza e un nuovo attaccamento. La grazia divina, presto o tardi illuminerà tutti perché, consapevoli o meno, è ciò che tutti gli esseri, in qualche modo, ricercano.