Concentrazione

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Concentrazione

sintesi di Simona Elena Ciaramella

Stefano Bettera è l’autore di un articolo apparso sul n. 131 del Marzo 2019 con il titolo “Educare la mente”.

L’autore afferma che per avvicinarsi alla pratica meditativa e coltivarla è importante e necessario prendersi tempo per sperimentare in quanto ognuno di noi è diverso. Il buddhismo suggerisce due approcci: samatha, la concentrazione, e vipassana, l’introspezione. I due aspetti non possono essere scissi poiché una mente lucida e attenta è la premessa per educare se stessi alla concentrazione, senza la quale non sarebbe possibile scendere al fondo di sé, esaminare in profondità l’uomo e la sua condizione, l’esistenza di cui siamo parte.

Samatha è un aspetto legato al funzionamento della mente che impara a dirigere la propria attenzione su un oggetto specifico, ma se non siamo ben allenati è facile distrarsi e perdere la rotta e così, quando accade, siamo chiamati a riaccompagnarla ogni volta con gentilezza e costanza all’oggetto individuato.

La meditazione è un’arte che si impara poco per volta, educando la pazienza, la volontà, la gentilezza. Non è facile attrezzare la barca e governarla, scrive Bettera, perché «durante la traversata, quando le onde si gonfieranno e tenere dritto il timone non sarà semplice, la nostra mente si ricorderà dell’addestramento, tornerà concentrata e il corpo funzionerà da àncora», non lascerà che la barca perda l’orientamento.

Non si può considerare la meditazione come una “tecnica di benessere” e neppure un “ideale spirituale”. La meditazione ci riporta a noi stessi, ci ricorda chi siamo, ci radica nel quotidiano, nell’esperienza del vivere, ci aiuta a diventare più chiari e attenti, equilibrati e consapevoli. E non si tratta di un’esperienza mistica.

Secondo la tradizione buddhista, la mente attraversa i jhana, passaggi, tutte le volte che diventa più stabile e si allontana dal turbinio dei pensieri che l’affollano e la ingolfano. Nel metodo insegnato da Gotama, però, non si trovano elementi che possano invitare alla ricerca di una spiritualità astratta o di un allontanamento dal proprio corpo.

L’autore dell’articolo ci ricorda che pur avendo sperimentato tutte le tecniche di pratica ascetica del suo tempo, Gotama si convinse che soprattutto quelle tecniche che mortificavano il corpo si erano rivelate inadeguate.

Da un brano del Canone Pali, si evince chiaramente che un corpo senza forze non è in grado di sperimentare la via del risveglio: «queste dolorose austerità non hanno portato ad alcuno stato trascendente» (Majjhima Nikaya 36).

Ma esiste un’altra strada? La risposta gli arriva da un ricordo, quello di suo padre che lavora mentre lui si gode la frescura di un albero di rose e mele. Gotama si trova in uno stato di quiete e di letizia, è con il padre, si sente protetto. Racconta di un fatto concreto, di un’esperienza che potrebbe essere comune a tutti, e si rende conto che la sua strada, fatta di pensiero, solitudine, riflessione e benessere concreto, non è possibile in un corpo deprivato. Immediatamente il percorso si fa chiaro, per partire basta poco: una ciotola di riso, semplice e nutriente, simbolo di una possibilità offerta a chiunque.

Il messaggio di Gotama è che ognuno di noi può “risvegliarsi”, ognuno di noi può iniziare a percorrere la propria strada nella concretezza del vivere quotidiano, avendo cura di sperimentare la vita nella consapevolezza della sua normalità. Gli strumenti sono semplici e sono alla portata di tutti.

Basta partire, iniziare il cammino, esercitare la pazienza e rimanere radicati nell’esperienza con creatività. La meditazione non è certo la soluzione dei problemi; la pratica è un’esperienza profonda che ci conduce poco a poco verso maggiori serenità e saggezza, più equilibrio.