Il Cervello che medita

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Il Cervello che medita

La meditazione produce evidenti cambiamenti nei meccanismi cerebrali e favorisce l’attenzione, la consapevolezza e addirittura la compassione verso la sofferenza altrui

sintesi di Eleonora Pinzuti

Antoine Lutz è l’autore di un articolo pubblicato sul n. 97 – Gennaio 2013 – del mensile di psicologia e neuroscienze Mente e cervello.
L’autore asserisce come, fino a qualche decennio fa, associare scienza e contemplazione sarebbe sembrato impensabile. E’ infatti a partire dall’Illuminismo che il dominio della soggettività, come cosa non misurabile, è stato separato dalla studio della materia. Eppure, dall’incontro del 1983 fra il neuro-scienziato francese Francisco Varela e il Dalai Lama, si decise di creare un forum per avviare il dialogo fra scienziati di fama e rappresentanti dell’universo religioso e spirituale.
Nell’aprile del 2013 si è tenuto a Denver il primo simposio internazionale dedicato alle “scienze contemplative”. Centinaia di neuro-scienziati, psicologi, esperti di meditazione hanno condiviso i risultati sui meccanismi cognitivi e neuronali e i loro effetti sulla salute.
Con il termine “meditazione” si indicano una grande varietà di esercizi mentali, dalle tecniche di rilassamento alla regolazione dell’emozione, fino alla comprensione dei fenomeni mentali. Le ricerche citate in questo articolo si sono concentrate sui metodi della tradizione buddhista, praticati sia in contesto tradizionale che secolare.
I testi buddhisti affermano che la meditazione è utile a eliminare la sofferenza mentale, le emozioni negative o i pensieri ossessivi e che per farlo è necessario introdurre cambiamenti negli stati emotivi e cognitivi e nelle abitudini centrate sul sé. Inoltre, affermano che questi cambiamenti debbono partire dall’osservazione degli stati emotivi e dalla comprensione dei fenomeni mentali.
Sono tre i tipi di meditazione presi in considerazione: la meditazione con attenzione focalizzata, la mindfulness – attenzione consapevole – e la compassione.

L’attenzione focalizzata
La meditazione con attenzione focalizzata consiste nel concentrarsi su un oggetto, come una fiamma o il respiro, e di stabilizzare l’attenzione. L’obiettivo è acquietare la mente e sorvegliare i processi interiori. Praticando, questa capacità permette di raggiungere la pratica di Vipassana, cioè la meditazione con piena consapevolezza. Si tratta di uno stato di “sorveglianza” che fa esperienza delle percezioni, dello schema cognitivo applicato alle stesse percezioni e del coinvolgimento del sé autobiografico. Accoppiando queste due modalità meditative (attenzione focalizzata e Vipassana) alla meditazione compassionevole, si cerca di coltivare emozioni positive e comportamenti altruistici.

Raggiungere l’equilibrio
Se vi sedete per dieci minuti e vi concentrate sulle sensazioni prodotte dal vostro respiro, noterete il flusso turbolento e involontario dei vostri pensieri: meditare è prendere coscienza di questo flusso, regolando, con il tempo, le emozioni che lo provocano.
Dedicarsi regolarmente alla meditazione modifica l’attività del cervello, come dimostrano le neuro-immagini. L’università del Wisconsin ha monitorato un gruppo di persone che praticano assiduamente la meditazione (una media di 10.000 ore di meditazione all’attivo), notando, se si fa loro ascoltare suoni angoscianti, che la loro amigdala (il centro delle emozioni e dello stress) è assai meno attiva rispetto a soggetti non praticanti. La meditazione sembra dunque sviluppare equanimità, ossia la facoltà di conservare uno stato emotivo stabile.
Ma come si pratica l’attenzione focalizzata? Il novizio sceglie un luogo privo di distrazioni, una posizione seduta rilassata e concentrata e un oggetto di attenzione (il respiro, ad esempio) sul quale deve cercare di concentrarsi: nel caso di una distrazione, dovrà riportare l’attenzione sull’oggetto iniziale.
La neuro-scienziata Wendy Hasenkamp, dell’Università di Atlanta, ha cercato di identificare, attraverso la risonanza magnetica, le reti funzionali alla base della pratica dell’attenzione focalizzata. Gli autori dello studio hanno identificato quattro fasi: un episodio di vagabondaggio della mente, un momento di presa di coscienza della distrazione, una fase di nuovo orientamento della stessa e una fase di attenzione intensa e focalizzata. Ogni episodio è legato alla rete di default, che raggruppa regioni mediali della corteccia prefrontale e del cingolo e che si attiva quando siamo assorbiti nei nostri pensieri.

Come il cervello cura il corpo

Le tecniche di meditazione sono usate anche in ambito ospedaliero e la loro efficacia clinica è stabilita in campi come il dolore cronico o la depressione. Lo psicologo cognitivo Zindel Segal ha dimostrato con uno studio specifico che, nella remissione della depressione, la meditazione ha gli stessi risultati degli antidepressivi.
Gli effetti positivi della meditazione sulla salute si basano su una modificazione dell’attività cerebrale. Il caso del dolore cronico è stato studiato dal neuro scienziato Fadel Zeidan che ha misurato l’attività cerebrale di praticanti che ricevevano stimolazioni dolorose. In queste persone l’intensità percepita del dolore era diminuita del 40 per cento e la sua natura sgradevole del 57 rispetto ai soggetti di controllo. La diminuzione del dolore è infatti associata a un aumento di attività della corteccia anteriore del cingolo e ad una bassa attività dell’insula, regioni che intervengono nella regolazione cognitiva del dolore. Inoltre, un’attivazione della corteccia orbito frontale permette di giudicare il dolore meno “sgradevole”.

Il ciclo degli stati mentali
Il secondo episodio del ciclo è associato, come si è visto sopra, alla presa di coscienza dello stato di distrazione e questa presa di coscienza è una capacità che si sviluppa proprio con la meditazione e fa intervenire la facoltà dell’introspezione. Quando ciò accade, entra in gioco l’insula anteriore, la corteccia somatosensoriale e la corteccia del cingolo anteriore; queste due regioni formano la cosiddetta rete di salienza che presiede alla percezione delle emozioni e dei sentimenti, sia piacevoli che dolorosi. Quanto entra in azione, il circuito interrompe altri meccanismi cerebrali quali la circolazione dei pensieri (primo episodio del ciclo) cosicché appena aumenta l’attività della rete di salienza diminuisce quella della rete di default descritta sopra.
Il terzo e il quarto episodio del ciclo riguardano il “riprendere” l’attenzione distolta e mantenere lo stato meditativo, di cui si fa carico la corteccia prefrontale dorsolaterale.
Qual è l’impatto di questa pratica regolare sull’attenzione? Sempre nel gruppo di ricerca di Davidson (Università del Wisconsin) è stato studiato l’impatto di tre mesi di meditazione intensa (otto ore al giorno di meditazione con attenzione focalizzata) sui praticanti. I partecipanti, che indossavano una cuffia, dovevano concentrarsi su suoni diffusi in un solo orecchio e riconoscere l’emissione di un suono parassita mentre venivano registrati i loro dati di reazione. Chi era abituato alla meditazione presentava meno variazioni nel tempo di reazione e le oscillazioni elettriche dei neuroni erano più regolari, mentre l’attenzione risultava più stabile.

Sviluppare l’attenzione
Un’altra ricerca ha studiato l’attività di praticanti neofiti o di livello intermedio durante l’attenzione focalizzata. I praticanti intermedi manifestavano un aumento di attività in diverse regioni del cervello implicate nel coinvolgimento dell’attenzione e nella sua conservazione-orientamento. Si è notato anche che questa attività dipende dalle ore di meditazione praticate: infatti mentre i praticanti esperti (44.000 ore di pratica) vedevano ridursi l’attività cerebrale, i praticanti intermedi (19.000 ore di meditazione) presentavano un aumento di attività in quelle regioni cerebrali.
Questa evoluzione dell’attenzione si osserva per altro in tutti i domini dell’apprendimento: gli esperti non devono fare più nessuno sforzo per focalizzare l’attenzione, presentando anche una minore attivazione dell’amigdala coinvolta nelle reazioni emotive; i praticanti esperti arrivano anche a inibire le reazioni automatiche dei testi psicomotori, inducendo gli psicologi a coniare il termine “deautomatizzazione” delle emozioni e dei comportamenti.

La “presenza attenta”
Focalizzare l’attenzione su qualcosa – per esempio il respiro – è esercizio utile per evitare di farsi distrarre. Ma il controllo dell’attenzione (e dunque la regolazione delle emozioni) implica anche una sorveglianza globale: si tratta, come atleti e musicisti sanno bene, del coltivare una forma più aperta di controllo, dove il soggetto non determina più esplicitamente l’obiettivo della sua attenzione.
Chi medita si apre a tutto ciò che accade dentro e intorno a sé: l’obiettivo è infatti avvicinarsi agli eventi (piacevoli o meno), osservandoli con distacco e senza sforzarsi di controllare emozioni o pensieri. Se la meditazione è simile al surf, dove sorvoliamo le onde assecondandone i movimenti, l’attenzione focalizzata è paragonabile alla vela, che mantiene la rotta indipendentemente dal vento e dalle onde.

L’attenzione intermittente
Nella meditazione il praticante diventa meno reattivo alle proprie emozioni, acquista una coscienza più chiara dei processi mentali e scopre un mezzo per trasformarli.
Interessava capire, dunque, se questa forma di open monitoring (o attenzione diffusa) poteva modificare la capacità di conservare l’attenzione globale e non reattiva. Attraverso un esperimento chiamato attentional blink il partecipante doveva individuare due cifre presentate molto rapidamente in mezzo a una successione di lettere. Se appare circa 300 millisecondi dopo la prima, la seconda cifra passa inosservata, mentre se appare dopo un ritardo di 600 millisecondo, la seconda cifra viene di solito individuata facilmente.
Questo perché le risorse attenzionali sono limitate e, se intente a memorizzare la prima cifra, non sono più disponibili a rilevare la seconda. Si è notato, invece, che i praticanti vedevano con maggior frequenza la seconda cifra, dimostrando come la pratica della meditazione in piena consapevolezza permette di non restare bloccati e di essere più disponibile a ciò che accade nella coscienza.

La via della compassione
Il terzo tipo di pratica meditativa consiste nello sviluppare uno stato emotivo di empatia, affetto e compassione. L’equanimità è una dote necessaria per evitare che le emozioni ci soverchino o di commiserare chi ci offende o ferisce. Un esperimento del 2008 ha dimostrato che i praticanti hanno una maggiore empatia di fronte alla sofferenza e, nei praticanti esperti, un aumento della capacità di “mettersi nei panni altrui”, testimoniati dall’aumento di attività in aree quali la giunzione temporo-parietale, la corteccia prefrontale mediale e il solco temporale superiore.
Nelle sue forme, la meditazione è una esplorazione della natura della mente e pone domande quali: che cos’è la coscienza? Che cos’è la soggettività? Quel che si è notato è che, nei praticanti esperti (50.000 ore di meditazione all’attivo), risultano maggiormente integrate attività di differenti regioni cerebrali, con un maggiore livello di “sincronizzazione”.
In un momento in cui è di moda parlare di “cervello aumentato”, la meditazione potrebbe offrire, senza pillole né impianti neuronali, una maggiore consapevolezza del proprio io e del mondo circostante. Del resto un aumento della coscienza è spesso sinonimo di decisioni migliori, rispetto, volontà di condivisione e non violenza.